Brexit: debacle per la May

Rossana Prezioso Rossana Prezioso - 16/01/2019 14:39

Poco prima del voto di ieri sera sulla Brexit qualcuno sperava in un margine di trattativa. O che, per lo meno, il no praticamente certo non fosse costellato da un plebiscito contro la premier inglese. Insomma, una flebile speranza che una cinquantina di voti potessero essere veicolati verso una nuova intesa. Ma il risultato è stato anche peggiore di qualsiasi, fosca, previsione.


Tutti (o quasi) contro la May

432 voti contrari e solo 212 a favore. Un esercito che nessuno si immaginava. E che adesso risulta essere anche potenzialmente pericoloso. Sì, perchè come ha fatto notare giustamente la stessa May a commento di quanto accaduto, questi 432 nemici si sono espressi contro il testo, ma non hanno detto cosa, invece, vorrebbero fare. Per questo motivo lei stessa ha chiesto all’opposizione di presentare una mozione di sfiducia al suo governo in modo da capire se i ministri e lei stessa possono ancora avere la fiducia dei deputati. Una richiesta prontamente accolta dal leader laburista Jeremy Corbyn pronto a invocare nuove elezioni generali. Ma il cambio del testimone non avrebbe gran senso. 

 

Corbyn a Downing Street: cosa cambierebbe?

Anche in questo caso, infatti, ci sarebbe un problema. A prescindere dai numeri per abbattere il governo (che difficilmente ci saranno) qualora la May, a sorpresa dovesse essere sconfitta le dimissioni del Premier non porterebbero a grandi soluzioni. Possibili elezioni anticipate vedono favorito Boris Johnson e lo stesso Corbyn. Quest’ultimo, però, non solo ha affermato di essere a sua volta a favore dell’addio all’Unione ma ha anche negato di volere un secondo referendum. In realtà Corbyn vuole nel testo del patto-Brexit la proposta laburista  di una Gran Bretagna all’interno dell’unione doganale. Opzione respinta prettamente dagli ultra-brexitiani così come anche agli stessi europeisti dei Labour.

 

Il piano B

Quello che viene criticato da tutti, come detto, è il patto sottoscritto. E questo significa, a livello del tutto ipotetico, che se ne dovrebbe elaborare un altro. Cosa di fatto impossibile. Intanto è corsa contro il tempo. Se non altro per capire cosa fare. Di fatto ora Londra non ha un piano per uscire ed arrivare alla deadline di marzo (per la precisione il 29), senza nessuna direttiva sarebbe economicamente catastrofico. Il Parlamento aveva votato l’obbligo, per il governo, di presentare un piano B sul quale, si mormora, la May abbia lavorato. Ufficialmente la portavoce della Commissione ha già confermato che per quanto riguarda Bruxelles, l’unico testo riconosciuto è solo ed esclusivamente quello firmato dalla premier. E che ieri è stato bocciato.

 

Un accordo che non piace a nessuno 

Quello che è stato respinto, però, è paradossalmente un accordo che non piace a nessuno dei due fronti. I Brexiteers lo giudicano una resa incondizionata all’Europa dal momento che non fissa paletti ferrei ma si mantiene sul vago soprattutto per quanto riguarda il confine nordirlandese. Chi invece crede nella permanenza in Europa giudica il patto come una sorta di ingiusta opportunità che permette a Londra di allontanarsi dall’Ue facendone parte solo per quel che le tornerebbe comodo. In altre parole: avrebbe tutti i vantaggi dell’Unione senza i doveri.

 

Il colpo di scena potrebbe ancora arrivare. Come?

Un incastro di date potrebbe creare l’ennesima svolta. Lo scenario: grazie il governo May riuscisse a trovare un accordo per rinviare sponte propria la Brexit oltre il 2 giugno si potrebbe sperare nel cambio dell’Europarlamento e, quindi, in nuovi propositi da parte di Bruxelles. Di sicuro un secondo referendum è tra le opzioni più difficilmente attuabili. Il motivo è molto semplice: nella prima occasione al popolo britannico venne chiesto di restare o uscire dall’Unione. Nulla è stato chiesto circa le modalità e lo status giuridico ed economico che Londra avrebbe dovuto eventualmente assumere una volta fuori. Il che ha creato l’empasse attuale.

 

Il nodo del referendum che nessuno può sciogliere

In un secondo referendum ci sarebbe invece la necessità di far scegliere questi elementi fondamentali. Non solo, ma il ritorno alle urne sarebbe per chiedere più che altro un parere sull’accordo o, anche, sui negoziati finora portati avanti. Impensabile tornare sul primo quesito (restare o lasciare) dal momento che è già stato etichettato come un tradimento della democrazia. Una cosa è certa: la May non ha nessuna intenzione di dimettersi. Nel solco della lunga tradizione delle Lady di Ferro (da Elisabetta I ad Angela Merkel) è convinta di uscire vittoriosa dalla mozione di sfiducia di Corbyn, tornare a dialogare con i partiti e presentarsi nuovamente a Bruxelles per riuscire a strappare un nuovo patto con l’Unione. Questa volta, si spera, accettato da tutti.



Rossana Prezioso
 

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