Guerra in Medio Oriente
Solo un mese fa, Donald Trump si era recato in Medio Oriente con l’intento dichiarato di promuovere affari, stabilità e persino pace nella regione. Tuttavia, anche qui, la sua capacità di influenzare Israele è simile a quella esercitata su Vladimir Putin, con la sostanziale differenza che Israele è un alleato militare degli Stati Uniti, destinatario regolare di forniture di armamenti.
Questa relazione speciale spiega la decisione degli Stati Uniti di evacuare in via precauzionale il personale non essenziale dalle ambasciate in Iran, Kuwait e Bahrain, ancora prima dell’attacco. Lo stesso Trump, alla vigilia dell’offensiva israeliana su Teheran, aveva affermato: “Non voglio dire che sia imminente, ma sembra qualcosa che potrebbe facilmente accadere”.
Lunedì si era tenuta una telefonata di 40 minuti tra il Presidente americano e il premier israeliano Benjamin Netanyahu. È ormai evidente che l’argomento principale della conversazione fosse l’intenzione di Israele di interrompere lo sviluppo del programma nucleare iraniano, tema caro anche a Trump, che nei mesi scorsi aveva riaperto il dialogo con Teheran su una possibile soluzione “nucleare”. A sua discolpa dall'ennesimo fallimento è stato quello di dichiararsi estraneo ai fatti.
L’attacco mirato ai siti nucleari iraniani ha causato la morte di diverse figure militari chiave, tra cui Hossein Salami, comandante dei Pasdaran (le Guardie della Rivoluzione Islamica), Mohammad Bagheri, capo di stato maggiore delle forze armate, e almeno sei scienziati nucleari, anche se l'identità e il bilancio finale restano ancora da confermare.
L’Iran ha annunciato di essere pronta a una guerra anche di lunga durata. In realtà, lo scontro tra i due Paesi prosegue da anni sotto forma di sabotaggi e incursioni condotte con droni nei rispettivi territori. Purtroppo, anche questo conflitto – come molti altri – dominerà le prime pagine solo per un tempo limitato, per poi scivolare lentamente nell’indifferenza, nonostante il numero delle vittime continui a crescere senza tregua.
Tregua Usa VS Cina per i dazi?
Dopo 48 ore di intense trattative svoltesi nella città neutrale di Londra – unico tra i principali Paesi ad aver raggiunto finora un'intesa con l’amministrazione Trump – sembra che Stati Uniti e Cina siano giunti a un accordo preliminare. L’intesa, tuttavia, deve ancora essere formalmente sottoscritta dai rispettivi leader.
L'incontro segue il fallimentare vertice di Ginevra, che aveva dato il via a una nuova escalation di accuse reciproche per il mancato rispetto degli impegni presi. Ora, però, pare esserci una nuova base di partenza. Tuttavia, le dichiarazioni di Trump continuano a generare incertezza: poco dopo la conclusione dei negoziati, ha annunciato che i dazi sulle esportazioni cinesi saliranno al 55%. Un’affermazione che la Casa Bianca ha poi provato a ridimensionare, lasciando comunque dubbi sulla capacità del Tycoon di mantenere un atteggiamento diplomatico e coerente.
Secondo fonti vicine ai negoziati, l’accordo prevede dazi del 30% sulle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti e del 10% su quelle americane dirette in Cina. A questi, Trump aggiungerebbe i precedenti dazi del 25% già applicati da Washington, portando a una situazione commerciale ancora piuttosto tesa, se non fosse quella delineata in fase di trattativa.
Sul fronte delle concessioni, la Cina si è detta disposta a riprendere le esportazioni di terre rare verso gli Stati Uniti, a patto che vi sia un impegno concreto e reciproco per la fornitura di semiconduttori americani in cambio.
Un altro punto rilevante dell’intesa riguarda il tema dei visti: è stata garantita la possibilità per gli studenti cinesi di ottenere visti per frequentare college e università statunitensi, una mossa che potrebbe stemperare parzialmente le tensioni sul piano culturale ed educativo.
Tuttavia, la reazione dei mercati, soprattutto in Asia, è stata tiepida. Questo suggerisce che l’enfasi trionfalistica di Trump potrebbe non essere del tutto giustificata. È probabile che, prima di poter considerare davvero conclusa questa lunga e complessa disputa commerciale, dovremo attendere ancora – soprattutto ora che le attenzioni internazionali si stanno spostando sui nuovi venti di guerra.
Curiosità:
Il sistema Ponzi
Carlo Ponzi nacque nel 1882 e si trasferì negli Stati Uniti nel 1903 con pochi soldi. Durante la traversata perse i suoi risparmi giocando d'azzardo. Dopo vari impieghi e tentativi imprenditoriali falliti, si trasferì a Montreal dove lavorò in una banca fondata da Luigi Zarossi. La banca prometteva rendimenti troppo alti (6%) rispetto al mercato (3%) e pagava i clienti con i soldi dei nuovi depositanti: uno schema insostenibile che portò al fallimento e alla fuga di Zarossi.
L’intuizione degli IRC (Buoni di risposta internazionali)
Dopo altri fallimenti imprenditoriali, Ponzi ricevette una lettera contenente un buono di risposta internazionale (IRC), uno strumento postale usato per pagare la risposta a una lettera da un altro Paese. Si rese conto che, a causa delle differenze valutarie e delle tariffe postali, era possibile comprare questi buoni in un paese (come l’Italia, colpita da inflazione) e convertirli in un altro (gli USA) ottenendo un profitto: un’operazione di arbitraggio.
Esempio semplificato:
Ponzi (o chi per lui) acquistava IRC in Italia per pochi centesimi di dollaro, grazie al cambio favorevole.
- Li spediva negli USA, dove poteva teoricamente convertirli in francobolli dal valore più alto, rivendendoli o usandoli per ottenere un ritorno.
- La differenza tra il costo di acquisto e il valore di conversione era il guadagno da arbitraggio.
La nascita dello schema Ponzi
Ponzi fondò la Securities Exchange Company, promettendo agli investitori rendimenti del 50% in 90 giorni, grazie al presunto arbitraggio dei buoni postali. All’inizio pagò effettivamente gli investitori, ma in realtà non c’era alcun commercio di IRC: i guadagni venivano pagati con i soldi dei nuovi investitori, in un classico schema piramidale.
Con il passaparola e la prova dei primi rimborsi, il successo fu travolgente: Ponzi arrivò a incassare oltre 250.000 dollari al giorno. Acquistò anche una banca (Hannover Trust Bank) per gestire autonomamente i suoi fondi e impedire controlli esterni.
La scoperta della truffa
Uno studio del giornalista finanziario Clarence Barron rivelò che, per sostenere le promesse di Ponzi, sarebbero stati necessari 160 milioni di buoni IRC, mentre in circolazione ce n'erano solo 27.000. Nonostante le prime proteste, Ponzi riuscì a restituire 2 milioni di dollari e rassicurare molti investitori. Tuttavia, la fiducia iniziò a crollare.
Nel luglio 1920, le autorità postali modificarono i tassi di conversione, rendendo impossibile anche in teoria il tipo di arbitraggio promesso. Il 10 agosto 1920, gli agenti federali chiusero la Securities Exchange Company e la banca di Ponzi. Il 13 agosto fu arrestato: non venne trovato nemmeno un buono IRC.
Alla fine, 40.000 persone persero complessivamente circa 15 milioni di dollari.
Il declino
Ponzi fu condannato e, dopo varie vicende giudiziarie, uscì definitivamente di prigione nel 1934. Venne espulso dagli Stati Uniti e tornò in Italia. Dopo altri fallimenti imprenditoriali, si trasferì in Brasile, dove morì povero e dimenticato nel 1949.
LA SETTIMANA IN BORSA
Settimana tinta di rosso sui principali indici mondiali seppure a due velocità. In Europa che aveva corso tanto, le prese di beneficio sono state più consistenti motivate anche dai venti di guerra in Medio Oriente, ma già da lunedì i listini avevano messo la retromarcia. Meglio in America, con i listini attardati rispetto il resto del mondo che hanno chiuso sostanzialmente in pari se consideriamo i forti rialzi delle scorse settimane.
Performance settimanali degli indici europei
I principali listini europei hanno chiuso in ribasso:
- DAX (Germania): -3,28%
- CAC 40 (Francia): -1,54 %
- FTSE MIB (Italia): -2,86 %
- FTSE 100 (Regno Unito): +0,14%
- EURO STOXX 50: -2,59%
- MSCI Europe: -1,61%
Cina e Usa: forse è presto per festeggiare
Come accennato in precedenza, la questione dei dazi tra le due principali potenze economiche mondiali prosegue tra cauti segnali di ottimismo da parte degli operatori, in attesa della firma definitiva da parte di Trump e Xi Jinping. Fare previsioni resta complicato, un po’ come in una relazione tra ex innamorati che cercano di ricucire i rapporti prima di affidarsi agli avvocati: un giorno tutto sembra andare per il meglio, il giorno dopo riaffiorano rancori e accuse, facendo precipitare nuovamente la situazione.
Anche i listini americani chiudono in negativo seppure di misura:
- S&P 500: -0,39%
- Nasdaq: -0,63%
- Russell 2000: -1,49%
- MSCI World: -0,35%
Indicatori macro: inflazione meglio delle attese
Ancora i dazi non hanno colpito i prezzi sugli scaffali a conferma che le aziende americane nell'incertezza del momento non hanno ancora approfittato dei possibili rincari dei prezzi dei prodotti di importazione. Infatti, il dato è stato migliore delle attese con un rialzo dello 0,1% (atteso 0,2%) al 2,4% su base annua, anche il dato core depurato dai prezzi degli alimentari ed energetici è cresciuto dello 0,1% su attese di uno 0,3% attestandosi al 2,8% come il mese precedente. Bisognerà valutare l'impatto del rincaro del petrolio per i prossimi mesi se la situazione non dovesse migliorare. Ora le attese per due tagli dei tassi di interesse per l'autunno sono in aumento, ma è auspicabile che Powell non si lascerà impressionare e rimarrà alla finestra per tutta l'estate.
Analisi tecnica e valutazioni: il consolidamento era atteso
Non si può prescindere dalla polveriera sempre a rischio esplosione in Medio Oriente, ma bisogna considerare che una fase di consolidamento in Europa era nell'aria, così come in America anche se nelle ultime settimana proprio gli indici americani stavano sovraperformando considerato il ritardo di performance rispetto al resto del mondo. Il dollaro ha ripreso ad indebolirsi e in questo senso può mitigare il rialzo del petrolio che era ai minimi degli ultimi 4 anni a 57 dollari e già prima degli eventi tra Israele ed Iran aveva ripreso a salire per poi accelerare sopra area 70 dollari al barile.
Prospettive per la prossima settimana
La settimana si chiude con una seduta in ribasso, un esito quasi inevitabile alla luce delle crescenti preoccupazioni per possibili nuovi bombardamenti nel fine settimana. Ma, a ben vedere, quando è stata davvero assente la violenza nell’area del Mediterraneo e nelle regioni circostanti, negli ultimi mesi o anni?
Non sorprende, dunque, che da tempo si assista a una corsa agli armamenti da parte di molti governi, anche di quelli che sembrano apparentemente estranei ai conflitti in corso.
Questa è ormai la realtà: un clima di tensione che si è fatto parte della quotidianità. E forse – ed è triste ammetterlo – già da lunedì si tornerà a sfogliare giornali carichi di cattive notizie e a investire sui mercati come fosse un rito di distrazione. Aprire l’home banking, vedere i titoli tornare al verde, mentre fuori il mondo si colora di rosso.