Ecco l’Iran che sbraita di chiudere lo Stretto di Hormuz, come il tipo al bar che minaccia di buttarsi dalla finestra ogni volta che gli aumentano il prezzo del caffè. Quanti anni sono che si sente questa solfa? Ogni due per tre, i soliti urlatori di regime sventolano la chiave dello Stretto come se fosse il bottone dell’apocalisse. E giù giornalisti, analisti e politici a farsi venire il mal di pancia, sempre lì col fiato corto, pronti a gridare “al lupo!”
Facciamola semplice, perché qui di sempliciotto c’è solo chi ancora ci crede davvero. Lo Stretto di Hormuz non è una porticina di servizio della casa di zia, è la gola stretta da cui passa il 20% del petrolio mondiale. Iran compreso. “Chiuderlo per dispetto agli altri sarebbe come segare il ramo su cui sono seduti”. Solo che stavolta il ramo è ricoperto d’oro, e sotto non c’è il prato morbido, ma il baratro dell’economia iraniana.
Gli americani, con la solita delicatezza di un elefante in cristalleria, hanno deciso che bombardare un po’ di siti nucleari iraniani fosse un modo intelligente per ‘riportare l’Iran al tavolo’. “Tipico: quando qualcuno non vuole parlare, lo prendi a schiaffi. Vedrai che poi collabora”. Risultato? L’Iran, prevedibilmente, si gonfia il petto e minaccia l’atto estremo. Solo che di estremo, qui, c’è solo il livello di autolesionismo.
Non è una questione di coraggio, è una questione di sopravvivenza. Quel petrolio che esce da Hormuz non è solo l’unico vero assegno in bianco degli ayatollah, è anche quello che finanzia i loro giochi di potere, le guardie rivoluzionarie, i suv dei generali e magari pure le vacanze segrete dei figli. “Chiudere lo stretto? Sì, come tagliarsi le palle per far dispetto alla moglie. E poi lamentarsi che la famiglia non si allarga”.
I ‘mercati’ intanto fanno la loro solita danza del panico. “Il petrolio potrebbe schizzare a 120 dollari al barile!” Che novità, sì, come quando piove e le borse europee vanno in rosso perché a qualcuno è scappato uno starnuto in Medio Oriente. Ma anche qui: il panico fa sempre bene a qualcuno, specialmente a chi in borsa ci sguazza. “C’è chi finanzia guerre, c’è chi finanzia la paura della guerra. Indovinate chi si arricchisce sempre, col sangue degli altri”.
Poi ci sono le “opzioni”. Gli Stati Uniti che già si stiracchiano i muscoli, pronti a far vedere che il Mediterraneo non è solo un posto dove parcheggiare yacht. Gli iraniani che si fanno i conti in tasca e scoprono che senza i soldi del petrolio si mangiano le unghie e basta. “E tutti che fanno finta di essere razionali, mentre si rimpallano minacce come bambini rincoglioniti durante la ricreazione”.
E intanto, dietro le urla, il mondo si inchioda aspettando che anche questa volta la montagna partorisca il solito topolino. Da decenni, minacce, bluff, sceneggiate: lo Stretto di Hormuz è la soap opera più noiosa e più costosa del pianeta. Ma l’importante è che ci crediate ancora, così la ruota gira, il petrolio sale, le banche brindano, e voi pagate la benzina sempre più cara. Complimenti per il ruolo da comparse.
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